Stenosi carotidea: sintomi, cause e trattamento
Le carotidi sono arterie di grosso calibro presenti nel collo con delle ramificazioni che hanno il compito di irrorare il sistema nervoso centrale (cervello) e le strutture facciali (muscoli, ghiandole ed occhi)
Tra le patologie principali che possono colpire il sistema arterioso carotideo si trova la stenosi carotidea.
La stenosi carotidea è una condizione in cui si ha una compromissione della circolazione sanguigna verso il cervello a causa della riduzione del calibro della carotide stessa.
Questa problematica è causata principalmente dall’aterosclerosi, generalmente relazionata a fattori di rischio come fumo, obesità, età avanzata
Tale patologia si manifesta prevalentemente nel sesso maschile, in età superiore ai 60 anni ed in chi abbia una familiarità per patologie del sistema cardio vascolare (parenti affetti o già trattati per infarto miocardico, ictus, aneurismi, vasculopatia periferica)
La stenosi carotidea può essere asintomatica ma può anche causare sintomi di tipo cerebrale, che rientrano nella cosiddetta “sindrome cerebrovascolare acuta”: questi sintomi possono essere transitori, nel caso dell’attacco ischemico transitorio (anche detto TIA) o permanenti, nel caso dell’ictus (o stroke). L’ictus in particolare rappresenta una delle principali cause di morte nel mondo e la principale di disabilità.
Come già detto la principale causa della stenosi carotidea è l’aterosclerosi, una patologia caratterizzata da depositi di placche formate da grasso o calcio nei vasi sanguigni.
L’aterosclerosi è sostanzialmente un segno di invecchiamento ed è presente in forma variabile in tutti gli individui che abbiano superato i 50 anni, ma in alcuni casi ha una progressione più veloce ed aggressiva per la concomitanza di alcuni fattori di rischio. Tra questi, i più rilevanti sono il diabete, il fumo, l’ipercolesterolemia, il sesso maschile e l’ipertensione oltre, ovviamente, all’età avanzata.
Altre cause di stenosi carotidea includono:
La prognosi della stenosi carotidea varia a seconda del grado del restringimento e delle caratteristiche della placca aterosclerotica:
La stenosi carotidea è il più delle volte asintomatica e riscontrata casualmente in corso di esami di screening. Tuttavia, quando risulta essere sintomatica, i segni sono quelli relativi all’ischemia cerebrale transitoria (TIA o attacco ischemico transitorio della durata massima di 24 ore) o permanente (ictus):
L’esame principale è rappresentato dall’Ecocolordoppler che, in mani esperte, consente di definire con accuratezza il grado di stenosi ed anche le caratteristiche della placca (composizione lipidica o calcifica)
Altro esame che può essere eseguito è l’AngioTAC che consente di valutare i vasi cerebrali all’interno del cranio e l’arco aortico dal quale nascono le carotidi.
L’AngioRMN rappresenta un’alternativa all’AngioTAC solo se questa non può essere eseguita, in quanto soggetta a maggiori artefatti e minor definizione della lesione.
L’angiografia, che prevede l’accesso diretto da una arteria periferica e l’immissione del mezzo di contrasto direttamente nella carotide, è attualmente riservata esclusivamente ai casi che vengono indirizzati al trattamento di rivascolarizzazione (disotruzione) per via endovascolare.
Ci sono due tipi di trattamento per la stenosi carotidea, ossia la terapia farmacologia e l’intervento chirurgico.
Come detto in precedenza, la terapia farmacologica non fa regredire la stenosi ma può rallentarne la progressione e quindi scongiurare un possibile intervento chirurgico. I farmaci usati maggiormente per il trattamento delle lesioni carotidee sono:
L’intervento chirurgico invece risulta essere l’unico modo per ristabilire il normale flusso sanguigno all’interno della carotide stenotica.
L’intervento è consigliabile nelle stenosi significative (>70-75%) in pazienti asintomatici; è inoltre fortemente indicato nei pazienti con sintomi di ischemia cerebrale transitoria (TIA) poiché riduce significativamente il rischio di ictus e può essere necessario procedere d’urgenza quando i TIA si presentano con frequenza ravvicinata (crescendo TIA).
L’intervento convenzionale dura in media 60 minuti, non richiede particolari preparazioni e consiste nell’asportazione chirurgica della placca; la procedura prevede una breve fase di interruzione del flusso di sangue nell’arteria (fase di clampaggio) che poi viene risuturata direttamente o con una plastica di allargamento mediante patch. Si posiziona un piccolo drenaggio che viene rimosso dopo 24 ore.
I rischi principali di questo intervento sono l’ischemia cerebrale intraoperatoria e i sanguinamenti postoperatori; nei centri specializzati queste complicanze si verificano in meno del 2% dei casi. Normalmente il paziente viene dimesso dopo 48 ore dall’intervento e riprende la sua vita normale.
L’intervento chirurgico convenzionale è controindicato in fase acuta di ictus, in presenza di rischio anestesiologico e cardiopolmonare troppo elevato o condizioni di “collo ostile” (pregressa radioterapia o interventi chirurgici sul collo, tracheostomia, faringostomia).
L’anestesia locale è possibile ma richiede una buona collaborazione da parte del paziente e competenza specifica dell’anestesista. L’anestesia generale prevede l’impiego di bypass temporanei (shunt) per mantenere il flusso cerebrale anche durante la fase di clampaggio o di sistemi di monitoraggio delle funzioni cerebrali.
Nei pazienti a rischio elevato, l’intervento può essere eseguito con tecnica endovascolare che prevede la dilatazione della stenosi con un catetere a palloncino (angioplastica) e il posizionamento di uno stent. Tutta la procedura si svolge in anestesia locale mediante puntura dell’arteria femorale all’inguine (o dell’arteria radiale, in casi selezionati) e dura in media 40 minuti. I rischi di questa tecnica sono legati alla possibilità di eventi ischemici durante la procedura (per il distacco di piccole parti di placca durante le manovre di cateterismo e conseguente embolia cerebrale) o complicazioni locali in sede di puntura arteriosa. Il paziente viene dimesso dopo 24-48 ore.
Il principale vantaggio dell’intervento, indipendentemente dalla tecnica adottata, è la notevole riduzione del rischio di ictus negli anni successivi alla procedura. È sempre necessario un controllo periodico mediante Ecodoppler e i pazienti devono assumere a vita una terapia antiaggregante, soprattutto in caso di stenting.
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